Filosofia 3A

La Scuola di Atene - Raffaello Sanzio 1509-11


L’affresco raffigura i principali protagonisti del pensiero greco. Espressione dello spirito rinascimentale volto alla riscoperta dei classici, esso illustra «la storia del pensiero antico dalle sue origini alla fine, riletta nell’ottica platonica, ossia come salita verso la filosofia tramite le scienze matematiche, fino a raggiungere i vertici della metafisica» (G. Reale, La Scuola di Atene di Raffaello, Bompiani, Milano 2005, p. XIX). I quattro gradini della scalinata simboleggiano la musica, l’aritmetica, la geometria, l’astronomia, mentre il piano superiore ospita la filosofia propriamente detta.




19 febbraio 2017

COMPITO DA FARE PER IL 27 MARZO 2017




PLATONE: APOLOGIA DI SOCRATE
Analisi del Testo

1) Chi sono gli accusatori di Socrate: quali categorie di uomini rappresentano e perché potevano covare dei rancori nei confronti di Socrate?

2) Chi presenta all’Arconte Re l’accusa e perché l’Arconte Re è il magistrato che presiede il processo di Socrate? Come si istruisce un processo per empietà?

3) Definisci sinteticamente le accuse rivolte a Socrate durante il processo.

4) Esponi le argomentazioni della autodifesa di Socrate.

5) Formula delle ipotesi sui motivi reali della condanna da parte del governo democratico di Atene.

6) a) Perché Socrate accetta la condanna?

b) Quali significative frasi rivolge ai giudici che lo hanno condannato?

c) Qual è l’ammonimento racchiuso nelle sue ultime parole?


7) Quale valore può avere oggi l’insegnamento di Socrate: ritieni che il suo messaggio sia circoscritto alla situazione storica dell’epoca oppure pensi che possa avere qualche attualità? Motivalo. Quali aspetti in particolare ti pare possano avere valore anche nel mondo contemporaneo?



22 gennaio 2017

Domani in classe parleremo del rapporto tra la filosofia platonica ed il mito.
Eccone uno, quello di Prometeo e Epimeteo descritto nel Protagora, che è molto importante e significativo.

Nel "Protagora", il noto sofista di Abdera illustra la propria tesi col mito di Epimeteo e Prometeo: Zeus, per render loro possibile vivere in società, ha distribuito aidos e dike a tutti gli uomini. Gli uomini hanno bisogno della cultura e dell'organizzazione politica perché sono creature prive di doti naturali, come artigli, denti e corna, immediatamente funzionali ai loro bisogni. Tutti partecipano di queste due virtù "politiche". Ma esse non vanno viste come connaturate all'uomo, bensì come qualcosa di sopravvenuto, qualcosa che è stato trasmesso in maniera consapevole, e non semplicemente attribuito in un processo cieco, "epimeteico", del quale si può render conto soltanto ex post: per questo è possibile insegnare aidos e dike agli uomini, mentre non si può "insegnare" a un toro ad avere corna e zoccoli. 
Ci fu un tempo in cui esistevano gli dei, ma non le stirpi mortali. Quando giunse anche per queste il momento fatale della nascita, gli dei le plasmarono nel cuore della terra, mescolando terra, fuoco e tutto ciò che si amalgama con terra e fuoco. Quando le stirpi mortali stavano per venire alla luce, gli dei ordinarono a Prometeo e a Epimeteo di dare con misura e distribuire in modo opportuno a ciascuno le facoltà naturali. Epimeteo chiese a Prometeo di poter fare da solo la distribuzione: "Dopo che avrò distribuito - disse - tu controllerai". Così, persuaso Prometeo, iniziò a distribuire. Nella distribuzione, ad alcuni dava forza senza velocità, mentre donava velocità ai più deboli; alcuni forniva di armi, mentre per altri, privi di difese naturali, escogitava diversi espedienti per la sopravvivenza. [321] Ad esempio, agli esseri di piccole dimensioni forniva una possibilità di fuga attraverso il volo o una dimora sotterranea; a quelli di grandi dimensioni, invece, assegnava proprio la grandezza come mezzo di salvezza. Secondo questo stesso criterio distribuiva tutto il resto, con equilibrio. Escogitava mezzi di salvezza in modo tale che nessuna specie potesse estinguersi. Procurò agli esseri viventi possibilità di fuga dalle reciproche minacce e poi escogitò per loro facili espedienti contro le intemperie stagionali che provengono da Zeus. Li avvolse, infatti, di folti peli e di dure pelli, per difenderli dal freddo e dal caldo eccessivo. Peli e pelli costituivano inoltre una naturale coperta per ciascuno, al momento di andare a dormire. Sotto i piedi di alcuni mise poi zoccoli, sotto altri unghie e pelli dure e prive di sangue. In seguito procurò agli animali vari tipi di nutrimento, per alcuni erba, per altri frutti degli alberi, per altri radici. Alcuni fece in modo che si nutrissero di altri animali: concesse loro, però, scarsa prolificità, che diede invece in abbondanza alle loro prede, offrendo così un mezzo di sopravvivenza alla specie. Ma Epimeteo non si rivelò bravo fino in fondo: senza accorgersene aveva consumato tutte le facoltà per gli esseri privi di ragione. Il genere umano era rimasto dunque senza mezzi, e lui non sapeva cosa fare. In quel momento giunse Prometeo per controllare la distribuzione, e vide gli altri esseri viventi forniti di tutto il necessario, mentre l’uomo era nudo, scalzo, privo di giaciglio e di armi. Intanto era giunto il giorno fatale, in cui anche l’uomo doveva venire alla luce. Allora Prometeo, non sapendo quale mezzo di salvezza procurare all’uomo, rubò a Efesto e ad Atena la perizia tecnica, insieme al fuoco - infatti era impossibile per chiunque ottenerla o usarla senza fuoco - e li donò all’uomo. All’uomo fu concessa in tal modo la perizia tecnica necessaria per la vita, ma non la virtù politica. [322] Questa si trovava presso Zeus, e a Prometeo non era più possibile accedere all’Acropoli, la dimora di Zeus, protetta da temibili guardie. Entrò allora di nascosto nella casa comune di Atena ed Efesto, dove i due lavoravano insieme. Rubò quindi la scienza del fuoco di Efesto e la perizia tecnica di Atena e le donò all’uomo. Da questo dono derivò all’uomo abbondanza di risorse per la vita, ma, come si narra, in seguito la pena del furto colpì Prometeo, per colpa di Epimeteo. Allorché l’uomo divenne partecipe della sorte divina, in primo luogo, per la parentela con gli dei, unico fra gli esseri viventi, cominciò a credere in loro, e innalzò altari e statue di dei. Poi subito, attraverso la tecnica, articolò la voce con parole, e inventò case, vestiti, calzari, giacigli e l’agricoltura. Con questi mezzi in origine gli uomini vivevano sparsi qua e là, non c’erano città; perciò erano preda di animali selvatici, essendo in tutto più deboli di loro. La perizia pratica era di aiuto sufficiente per procurarsi il cibo, ma era inadeguata alla lotta contro le belve (infatti gli uomini non possedevano ancora l’arte politica, che comprende anche quella bellica). Cercarono allora di unirsi e di salvarsi costruendo città; ogni volta che stavano insieme, però, commettevano ingiustizie gli uni contro gli altri, non conoscendo ancora la politica; perciò, disperdendosi di nuovo, morivano. Zeus dunque, temendo che la nostra specie si estinguesse del tutto, inviò Ermes per portare agli uomini rispetto e giustizia, affinché fossero fondamenti dell’ordine delle città e vincoli d’amicizia. Ermes chiese a Zeus in quale modo dovesse distribuire rispetto e giustizia agli uomini: «Devo distribuirli come sono state distribuite le arti? Per queste, infatti, ci si è regolati così: se uno solo conosce la medicina, basta per molti che non la conoscono, e questo vale anche per gli altri artigiani. Mi devo regolare allo stesso modo per rispetto e giustizia, o posso distribuirli a tutti gli uomini?« «A tutti - rispose Zeus - e tutti ne siano partecipi; infatti non esisterebbero città, se pochi fossero partecipi di rispetto e giustizia, come succede per le arti. Istituisci inoltre a nome mio una legge in base alla quale si uccida, come peste della città, chi non sia partecipe di rispetto e giustizia». [323] Per questo motivo, Socrate, gli Ateniesi e tutti gli altri, quando si discute di architettura o di qualche altra attività artigianale, ritengono che spetti a pochi la facoltà di dare pareri e non tollerano, come tu dici - naturalmente, dico io - se qualche profano vuole intromettersi. Quando invece deliberano sulla virtù politica - che deve basarsi tutta su giustizia e saggezza - ascoltano il parere di chiunque, convinti che tutti siano partecipi di questa virtù, altrimenti non ci sarebbero città. Questa è la spiegazione, Socrate. Ti dimostro che non ti sto ingannando: eccoti un’ulteriore prova di come in realtà gli uomini ritengano che la giustizia e gli altri aspetti della virtù politica spettino a tutti. Si tratta di questo. Riguardo alle altre arti, come tu dici, se qualcuno afferma di essere un buon auleta o esperto in qualcos'altro e poi dimostri di non esserlo, viene deriso e disprezzato; i familiari, accostandosi a lui, lo rimproverano come se fosse pazzo. Riguardo alla giustizia, invece, e agli altri aspetti della virtù politica, quand’anche si sappia che qualcuno è ingiusto, se costui spontaneamente, a suo danno, lo ammette pubblicamente, ciò che nell’altra situazione ritenevano fosse saggezza - dire la verità - in questo caso la considerano una follia: dicono che è necessario che tutti diano l’impressione di essere giusti, che lo siano o no, e che è pazzo chi non finge di essere giusto. Secondo loro è inevitabile che ognuno in qualche modo sia partecipe della giustizia, oppure non appartiene al genere umano. Dunque gli uomini accettano che chiunque deliberi riguardo alla virtù politica, poiché ritengono che ognuno ne sia partecipe. Ora tenterò di dimostrarti che essi pensano che questa virtù non derivi né dalla natura né dal caso, ma che sia frutto di insegnamento e di impegno in colui nel quale sia presente. Nessuno disprezza né rimprovera né ammaestra né punisce, affinché cambino, coloro che hanno difetti che, secondo gli uomini, derivano dalla natura o dal caso. Tutti provano compassione verso queste persone: chi è così folle da voler punire persone brutte, piccole, deboli? Infatti, io credo, si sa che le caratteristiche degli uomini derivano dalla natura o dal caso, sia le buone qualità, sia i vizi contrari a queste. Se invece qualcuno non possiede quelle qualità che si sviluppano negli uomini con lo studio, l’esercizio, l’insegnamento, mentre ha i vizi opposti, viene biasimato, punito, rimproverato.


(Platone, Protagora, 320 C - 324 A)



26 DICEMBRE 2016

COMPITI VACANZE
studiare e ripassare Platone.

1.  Rivedere la teoria delle idee utilizzando il seguente materiale 


integrando alla mappa concettuale i seguenti materiali, copiando le voci del glossario ed elaborando  il resto in modo tale da avere sul tuo quaderno un discorso omogeneo (verrà controllato!!!).
2. Per ripassare partiamo dal GLOSSARIO:
Iperuranio
Con il termine “iperuranio” (dal greco hypér, “oltre”, e ouranós, “cielo”) Platone intende la mitica regione sopraceleste nella quale risiedono le sostanze immutabili che costituiscono l’oggetto della scienza, ovvero le idee. Tale regione è aspaziale e immateriale, giacché il cielo racchiudeva, per gli antichi, tutto lo spazio. Gli studiosi non sono però d’accordo su come debba venire filosoficamente inteso tale iperuranio. Infatti, mentre per alcuni esso sarebbe una semplice metafora poetica per evidenziare il diverso modo di essere delle idee rispetto alle cose, per altri avrebbe invece il significato di un vero e proprio mondo sovrasensibile metafisicamente esistente.
Rapporto idee-cose
Per quanto concerne il rapporto tra le idee e le cose, Platone tende a vedere nelle idee:
1. il criterio di giudizio delle cose;

2. la causa delle cose.
In altri termini, le idee rappresentano sia il criterio di pensabilità degli enti (in quanto non si ha il particolare senza l’universale, né il sensibile senza l’intelligibile), sia la loro ragion d’essere (in quanto l’imperfetto esiste solo in virtù del suo essere copia del perfetto).
Gradi della conoscenza
All’essere, e quindi alle idee, Platone fa corrispondere la scienza, che è la conoscenza vera; al non essere fa corrispondere l’ignoranza; al divenire, che sta in mezzo tra l’essere e il non essere, fa corrispondere l’opinione, che si trova a metà strada fra la conoscenza e l’ignoranza. L’opinione (dóxa) si divide in due gradi: a) la congettura o immaginazione (eikasía), che ha per oggetto le ombre o le immagini degli oggetti; b) la credenza (pístis), che ha per oggetto le cose sensibili, percepite nei loro rapporti scambievoli. La conoscenza razionale o scientifica (epistéme) si divide in ragione matematica o discorsiva, che ha per oggetto le idee matematiche, e in intelligenza filosofica o noetica, che ha come oggetto le idee-valori.
Dualismo
La teoria delle idee conferisce al pensiero platonico della maturità un’impronta inequivocabilmente dualistica, ossia di dottrina fondata su due principi esplicativi del mondo: le cose e le idee da un lato (dualismo ontologico), l’opinione e la scienza dall’altro (dualismo gnoseologico). Ovviamente tale dualismo, che talora prende anche la forma di un dualismo antropologico tra anima e corpo, non deve essere inteso, com’è storicamente accaduto, in maniera troppo rigida ed esasperata. Infatti, pur affermando la distinzione delle idee rispetto alle cose, Platone ne difende anche gli intrinseci rapporti e la sostanziale consanguineità (synghéneia), che permette sia il movimento “all’in su”, dalle cose alle idee, sia il movimento “all’in giù”, dalle idee alle cose.
Idea del Bene
L’idea del Bene, secondo Platone, costituisce l’idea delle idee, cioè il supremo valore da cui dipendono tutte le altre idee. Il Bene non crea le idee, che sono eterne, ma si limita a comunicare loro la perfezione, rimanendo, in ogni caso, “superiore” a esse.
Anamnesi
L’anamnesi (dal greco anámnesis, “reminiscenza”, “ricordo”) indica, in Platone, la teoria mitico-filosofica di matrice orfica secondo cui l’anima, prima di calarsi nel corpo, è vissuta, disincarnata, nel mondo delle idee, dove ha potuto contemplare i modelli perfetti delle cose (le idee), delle quali conserva un ricordo sopito, che viene risvegliato dal contatto con le cose di questo mondo, secondo il principio per cui «conoscere è ricordare».


3. LEGGERE IL BRANO E SPIEGARE PER ISCRITTO A COSA FA RIFERMENTO QUESTO DIALOGO RISPETTO A QUANTO STUDIATO FINORA

Platone - Cratilo
L’essenza delle cose
I protagonisti del Cratilo sono Socrate, Ermogene e Cratilo. Ermogene, fedele discepolo di Socrate che compare anche nel Fedone, ritiene che i nomi si riducano a espressioni convenzionali, a qualcosa che si può modificare in qualunque momento (convenzionalismo linguistico). Cratilo, filosofo eracliteo di cui Platone è stato discepolo negli anni giovanili, afferma invece che ai nomi corrisponde la realtà delle cose (naturalismo linguistico). Nel dialogo, Socrate critica entrambi i suoi interlocutori, lasciando intravedere la possibilità di una terza, originale via.
SOCRATE Orsù, allora, vediamo, o Ermogene, se anche gli enti a te pare che stiano così: la loro essenza è relativa a ciascuno di noi individualmente, come diceva Protagora dicendo che «misura di tutte le cose» è l’uomo, cosicché quali a me sembrino essere le cose, tali anche siano per me, e quali a te, tali per te? o credi piuttosto ch’esse abbiano una loro fermezza nell’essere?

ERMOGENE Già una volta, o Socrate, trovandomi nell’imbarazzo, proprio a questo mi lasciai trarre, a quel che Protagora dice; ma non credo affatto che la cosa sia così. 
SOCRATE O come, a questo ti lasciasti trarre, sì da credere che addirittura non esista uomo cattivo?
ERMOGENE Oh, no, certo; che anzi più volte codesto mi è capitato, di dover credere che uomini in tutto malvagi ce ne siano, e numerosi assai.
SOCRATE E del tutto buoni non hai mai creduto ce ne fossero?
ERMOGENE Sì, ma pochissimi.
SOCRATE Credevi in ogni modo che ce ne fossero.
ERMOGENE Sì.
SOCRATE Orbene, come intendi ciò? Forse così, che gli uomini del tutto buoni siano del tutto assennati; gli uomini del tutto cattivi siano del tutto dissennati?
ERMOGENE Così almeno mi pare.
SOCRATE È possibile allora, se Protagora diceva il vero ed è questa la verità, che quali a ciascuno sembrano le cose, tali anche sono, che alcuni di noi siano assennati, altri dissennati?
ERMOGENE No certo.
SOCRATE Anche questo, io credo, ammetterai sicuramente, che se v’è assennatezza e dissennatezza, non è affatto possibile che Protagora dica il vero; perché nessun uomo in verità potrà essere mai più assennato di un altro, se per ciascuno ciò solo ch’egli crede vero, è vero.
ERMOGENE È così.
SOCRATE Senonché, neppur seguendo Eutidemo, penso, a te sembra che per tutti tutte le cose siano allo stesso modo, insieme e sempre; ché neppur così potrebbero essere gli uni buoni, gli altri cattivi, se fossero allo stesso modo, per tutti e sempre, virtù e vizio.
ERMOGENE Dici il vero.
SOCRATE Se quindi né per tutti tutte le cose sono allo stesso modo insieme e sempre, né per ciascuno in un suo modo particolare ogni cosa, è ben chiaro che codeste cose hanno in se stesse una lor propria e stabile essenza, non dipendono da noi, né da noi sono tratte in su e in giù secondo la immaginazione nostra, bensì esistono per se stesse, senz’altro rapporto che con la loro essenza, così come sono per natura.
ERMOGENE Mi sembra, o Socrate, così.
(Cratilo, 385e - 386e, trd. it. di L. Minio-Paluello, Laterza, Roma-Bari 1971)


4. LEGGI IL BRANO E LAVORA COME DESCRITTO IN FONDO AL TESTO
dalla Repubblica di Platone
Il mito di Er
Uscita dal suo corpo, l'anima aveva camminato insieme con molte altre ed erano arrivate a un luogo meraviglioso, dove si aprivano due voragini nella terra, contigue, e di fronte a queste, alte nel cielo, altre due. In mezzo sedevano dei giudici che, dopo il giudizio, invitavano i giustia prendere la strada di destra che saliva attraverso il cielo, dopo aver loro apposto dinanzi i segni della sentenza; e gli ingiusti invece a prendere la strada di sinistra, in discesa. […]

Quando si era avanzato lui [Er], gli avevano detto che avrebbe dovuto descrivere agli uomini il mondo dell'aldilà, e che lo esortavano ad ascoltare e contemplare tutto quello che c'era in quel luogo. […]
Quando i singoli gruppi che si trovavano nel prato vi avevano trascorso sette giorni, nell'ottavo dovevano levarsi di lì e mettersi in cammino, per giungere nel quarto giorno in un luogo donde potevano scorgere, tesa dall'alto attraverso tutto il cielo e la terra, una luce diritta come una colonna, molto simile all'arcobaleno, ma più intensa e più pura. […] Alle estremità era sospeso il fuso di Anànke, per il quale giravano tutte le sfere. […] Altre tre donne sedevano in cerchio a eguali distanze, ciascuna su un trono: erano le sorelle di Anànke, le Moire, in abiti bianchi e con serti sul capo: Làchesi, Cloto, Àtropo. […] Al loro arrivo, le anime dovevano presentarsi a Làchesi.
E un araldo divino prima le aveva disposte in fila, poi aveva preso dalle ginocchia di Làchesi le sorti e vari tipi di vita, era salito su un podio elevato e aveva detto: «Parole della vergine Làchesi sorella di Anànke. Anime dall'effimera esistenza corporea, incomincia per voi un altro periodo di generazione mortale, preludio a nuova morte. Non sarà un dèmone a scegliere voi, ma sarete voi a scegliervi il dèmone. Il primo che la sorte designi scelga per primo la vita cui sarà poi irrevocabilmente legato. La virtù non ha padrone; secondo che la onori o la spregi, ciascuno ne avrà più o meno. La responsabilità è di chi sceglie, il dio non è responsabile».
Con ciò aveva scagliato al di sopra di tutti i convenuti le sorti e ciascuno raccoglieva quella che gli era caduta vicino, salvo Er, cui non era permesso di farlo. Chi l'aveva raccolta vedeva chiaramente il numero da lui sorteggiato. Subito dopo aveva deposto per terra davanti a loro i vari tipi di vita, in numero molto maggiore dei presenti. Ce n'erano di ogni genere: vite di qualunque animale e anche ogni forma di vita umana. C'erano tra esse tirannidi, quali durature, quali interrotte a metà e concludentisi in povertà, esilio e miseria. C'erano pure vite di uomini celebri o per l'aspetto esteriore, per la bellezza, per il vigore fisico in genere e per l'attività agonistica, o per la nascita e le virtù di antenati; e vite di gente oscura da questi punti di vista, e così pure vite di donne. Non c'era però una gerarchia di anime, perché l'anima diventava necessariamente diversa a seconda della vita che sceglieva. […] 
Lì, come sembra, caro Glaucone, appare tutto il pericolo per l'uomo; e per questo ciascuno di noi deve stare estremamente attento a cercare e ad apprendere questa disciplina senza curarsi delle altre, vedendo se riesce ad apprendere e a scoprire chi potrà comunicargli la capacità e la scienza di discernere la vita onesta e la vita trista e di scegliere sempre e dovunque la migliore di quelle che gli sono possibili. […] Egli potrà, guardando la natura dell'anima, scegliere una vita peggiore o una vita migliore, chiamando peggiore quella che la condurrà a farsi più ingiusta, migliore quella che la condurrà a farsi più giusta. E tutto il resto lo lascerà perdere. […] Così l'uomo può raggiungere il colmo della felicità.
In quel momento, dunque, secondo quanto narrava il nunzio che veniva di là, l'araldo divino aveva parlato così: «Anche chi si presenta ultimo, purché scelga con senno e viva con regola, può disporre di una vita amabile, non cattiva. Il primo cerchi di scegliere con cura e l'ultimo non si scoraggi». A queste parole, raccontava Er, colui che aveva avuto la prima sorte si era subito avanzato e aveva scelto la maggiore tirannide. A questa scelta era stato spinto dall'insensatezza e dall'ingordigia, senza averne abbastanza valutato tutte le conseguenze. […] Egli apparteneva al gruppo che veniva dal cielo e nella vita precedente era vissuto in un regime ben ordinato, ma aveva acquistato virtù per abitudine, senza filosofia. E per quanto se ne poteva dire, tra coloro che si lasciavano sorprendere in simili imprudenze non erano i meno quelli che venivano dal cielo: perché erano inesperti di sofferenze. Invece coloro che venivano dalla terra, per lo più non operavano le loro scelte a precipizio: perché avevano essi stessi sofferto o veduto altri soffrire. […] Perché se uno, quando arriva a questa nostra vita, pratica sempre sana filosofia, e se nel momento della scelta la sorte non gli cade tra le ultime, ha buone probabilità, secondo le notizie di lì riferite, non solo di essere felice in questo mondo, ma anche di compiere il viaggio da qui a lì e da lì a qui non per una strada sotterranea e aspra, ma liscia e celeste. […]
Dopo che tutte le anime avevano scelto le rispettive vite, si presentavano a Làchesi nell'ordine stabilito dalla sorte. A ciascuno ella dava come compagno il dèmone che quegli s'era preso, perché gli fosse guardiano durante la vita e adempisse il destino da lui scelto. Ed esso guidava l'anima anzitutto da Cloto, a confermare, sotto la sua mano e sotto il giro del fuso, il destino che s'era scelta dopo il sorteggio. Poi toccava questo [il fuso] e quindi la conduceva alla trama tessuta da Àtropo, rendendo inalterabile il destino una volta filato. Di lì, senza volgersi, ciascuno si recava sotto il trono di Anànke e gli passava dall'altra parte.
Dopo che anche gli altri erano passati, tutti si dirigevano verso la pianura del Lete in una tremenda calura e afa. […] Al calare della sera, essi si accampavano sulla sponda del fiume Amelete, la cui acqua non può essere contenuta da vaso alcuno. E tutti erano obbligati a berne una certa misura, ma chi non era frenato dall'intelligenza ne beveva di più della misura. Via via che uno beveva, si scordava di tutto. Poi s'erano addormentati, quando, a mezzanotte, era scoppiato un tuono e s'era prodotto un terremoto: e d'improvviso, chi di qua, chi di là, eccoli portati in su a nascere, ratti [veloci] filando come stelle cadenti. Lui, Er, aveva ricevuto divieto di bere quell'acqua. Per dove e come avesse raggiunto il suo corpo non sapeva. Sapeva soltanto che d'un tratto aveva aperto gli occhi e s'era veduto all'alba giacere sulla pira.
E così, Glaucone, s'è salvato il mito e non è andato perduto. E potrà salvare anche noi, se gli crediamo; e noi attraverseremo bene il fiume Lete e non insozzeremo l'anima nostra.


(Platone, Repubblica, libro X, 614a - 621d, in Platone, Opere complete, a cura di G. Giannantoni, Laterza, Roma-Bari 1967, vol. 2, pp. 447-445)

  • INDIVIDUA NEL TESTO: 
- IL GIUDIZIO 
- IL FUSO DI ANANKE
- LA SCELTA DI UNA NUOVA VITA
- L'IMPORTANAZA DI PREPARARSI ALLA SCELTA 
- IL VALORE DELLA SOFFERENZA
- LA CONFERMA DEL DESTINO
- L'OBLIO 
- FINE RACCONTO

  • RIASSUMI IL MITO NELLA SUA COMPLETEZZA E SOTTOLINEA QUAL è L'INVITO FINALE POSTO AL LETTORE.
  • COSA SIGNIFICANO LE FRASI SOTTOLINEATE? SCRIVI LE TUE IPOTESI
  • INFINE SCRIVI IL SIGNIFICATO CHE HANNO QUESTE PAROLE DEL BRANO: GIUSTI, MOIRE, MITO, DEMONE, MONDO DELL'ALDILà



domenica 25 ottobre 2015
Compito da svolgere per il 12 dicembre 2015
OGNUNO DI VOI SCELGA UN (solo) COMPITO DA SVOLGERE PER ISCRITTO, la sottoscritta controllerà e ritirerà i lavori svolti!!!
Buon lavoro :-)



Laboratorio delle competenze filosofiche
La natura
Le nostre domande
Cos’è la natura?
Quali sono i confini tra il naturale e l’artificiale?
Che posto occupa l’uomo all’interno della natura? E come si deve porre di fronte a essa?
La natura è un grande organismo le cui parti tendono a un fine o una macchina deterministicamente organizzata?
I primi filosofi greci utilizzarono il termine natura (phýsis) per designare il principio generativo delle cose soggette a nascita e morte, accrescimento e corruzione. Nella Metafisica Aristotele affermerà che “la natura è la sostanza di quelle cose che hanno un principio di movimento in se stesse”, distinte dagli enti ingenerati ed eterni (oggetto della metafisica e della matematica) e da ciò che è “per arte”, cioè che è dovuto all’azione umana.
La fisica greca classica e quella cristiana medievale hanno avuto come modello di riferimento la biologia: il mondo è un grande organismo ed esistono dei fini, cui tutto tende. È chiaro che privilegiare i fini rispetto alle cause implica l’affermazione dell’esistenza di una Mente ordinatrice, che quei fini assegna alla natura.
Nella fisica moderna, invece, il modello fondamentale di interpretazione prende le mosse dai corpi inanimati: il termine “fisica” diventa lo studio degli oggetti inanimati e il mondo viene paragonato a un grande meccanismo, da interpretare in base ai principi di causa ed effetto.
È chiaro fin da subito che il primo problema che si pone riguarda il rapporto dell’uomo con la natura. Se da un lato, l’uomo è innegabilmente parte della natura, in quanto soggetto alla nascita e alla morte, dall’altro, l’uomo si differenzia dagli altri enti naturali, in quanto ha la prerogativa di conoscere la natura e di attribuirsi una collocazione all’interno di essa; egli, insomma, ha posto la natura come altro da sé, in quanto oggetto di studio o ambiente da modificare e modellare ai suoi fini.
Si può così rintracciare un’opposizione, quella tra natura e cultura, che è una delle più antiche della storia del pensiero occidentale. Questa opposizione si basa sull’idea che esista un confine tra società umane e ambienti naturali, tra ciò che è artefatto (sia materiale sia intellettuale) e ciò che è dato in natura. Questa opposizione si declina facilmente, soprattutto in epoche più recenti, in quella naturale-artificiale. Vedremo più avanti come questa distinzione non sia sempre così chiara come sembra e come i confini tra naturale e artificiale, umano e tecnologico, si facciano sempre più labili.
Parlare di filosofia
Il sostantivo “natura” e l’aggettivo “naturale” sono, come si è visto, termini polisemici, che cioè possono assumere significati diversi a seconda del contesto. Considera le seguenti proposizioni e, consultando il dizionario, precisa in quale senso vengono utilizzate le due parole.
Natura
Un uomo di natura collerica è un individuo che tende ad avere scatti d’ira improvvisi e incontrollati.
I disastri ambientali si stanno imponendo all’attenzione della comunità internazionale come problemi di natura politica.
Prima che si affermasse l’uso della moneta, l’economia era caratterizzata da scambi in natura.
In primavera si assiste al risveglio della natura.
I seguaci della scuola cinica coltivavano l’ideale di “vivere secondo natura”, abbandonando i beni e gli usi della vita civile.
Il pittore bolognese Morandi prediligeva come soggetto pittorico la natura morta.
Non è nella natura delle cose, che un padre sopravviva al proprio figlio.
La filosofia della natura è lo studio speculativo dei principi su cui si fonda la totalità degli enti esistenti.
I tre regni della natura sono l’animale, il vegetale e il minerale.
Per Il musicista romantico Chopin suonare era una seconda natura.
Naturale
I cibi naturali sono i più sani.
È naturale che mia sorella mi inviti al suo matrimonio.
I confini politici degli Stati africani spesso non coincidono con i confini naturali.
Immanuel Kant, filosofo tedesco del XVIII secolo, è morto di morte naturale.
Cesare Borgia, uomo politico vissuto a cavallo fra XV e XVI secolo, era il figlio naturale di papa Alessandro VI.
I Pitagorici conoscevano solo i numeri naturali.
Mi viene naturale pensare ad alta voce.
La musica contemporanea predilige i suoni non naturali.
Ha subito provato nei suoi confronti un naturale moto di simpatia.
La zoologia, la botanica, la chimica e la geologia sono scienze naturali.

Botta e risposta
Si può manipolare la natura? I campi coltivati, gli innesti in agricoltura, gli incroci tra razze animali sono esempi di come l’uomo nel corso dei secoli abbia cercato di modificare la natura per i suoi scopi. Il dibattito oggi si concentra, però, su pratiche come quella degli OGM (organismi geneticamente modificati) e della clonazione. Dopo esservi documentati, dividetevi in due gruppi e sostenete rispettivamente la tesi dell’ammissibilità o della non ammissibilità di una di queste pratiche, ponendovi il problema della liceità etica e dei vantaggi o svantaggi, che ne potrebbero derivare.
Scrivere di filosofia
Testo creativo




Sopra puoi vedere tre fotografie, che rappresentano rispettivamente una campagna inglese, un vigneto francese e delle colline toscane. L’impronta umana vi viene percepita in modo molto deciso. Possiamo ancora definirli ambienti naturali? In che senso?
«Tutti noi siamo convinti di saper distinguere immediatamente e senza ambiguità, tra vari oggetti, quelli naturali e quelli artificiali: una roccia, una montagna, un fiume o una nube sono oggetti naturali; un coltello, un fazzoletto, un’automobile sono oggetti artificiali, artefatti... Ma appena si analizzano tali giudizi ci si accorge che essi non sono né immediati né del tutto obiettivi. Sappiamo che il coltello è stato forgiato dall’uomo per un uso, per una prestazione progettata in precedenza. L’oggetto materializza quindi l’intenzione preesistente da cui ha tratto origine e la sua forma è giustificata dalla prestazione a cui era destinato ancor prima della sua effettiva realizzazione. Nulla di simile per il fiume o la roccia, che sappiamo o pensiamo modellati dal libero gioco di forze fisiche alle quali non sapremmo attribuire alcun progetto. Tutto ciò naturalmente è vero, valido se si ammette il postulato fondamentale del metodo scientifico, secondo cui la Natura è oggettiva e non è proiettiva.»
(J. Monod, Il caso e la necessità, Mondadori, Milano 1974)
Monod continua, chiedendosi se sia possibile allestire un programma, che permetta a un calcolatore di distinguere un artefatto da un oggetto naturale. Che cosa ne pensi?
Nel Libro I del Capitale, Karl Marx scrive: “L’ape fa vergognare molti architetti con la costruzione delle sue cellette di cera. Ma ciò che fin dal principio distingue il peggior architetto dall’ape migliore è il fatto che egli ha costruito la celletta nella sua testa prima di costruirla in cera”.






Di fronte a un alveare, una diga di castori, un’ascia paleolitica, un veicolo spaziale, una ragnatela, un tappeto, un nido, una cesta, si può dire, a tuo parere, che alcuni sono artefatti e altri oggetti naturali?
Scrivi un racconto in cui immagini un mondo, in cui non esiste più nulla di naturale.
Saggio
La questione del rapporto tra la legge stabilita dall’uomo (per i greci nómos, che varia presso i diversi gruppi umani) e la natura (identificata con la legge che è indipendente dalla volontà dell’uomo ed è, quindi, uguale per tutti) diventa oggetto della riflessione filosofica in particolare con i sofisti, che per primi concentrano la loro attenzione sull’uomo e sui suoi comportamenti individuali e collettivi. Il tragediografo Sofocle nell’Antigone mette in scena il contrasto tra Creonte, sovrano della città di Tebe e Antigone, che osa sfidarlo infrangendo i suoi proclami. La protagonista della tragedia decide, infatti, di trasgredire il divieto del re e di dare sepoltura al fratello Polinice – morto combattendo contro Tebe –, nella consapevolezza di andare incontro, in tal modo, alla morte. Nel dialogo proposto, in cui i due personaggi si affrontano, Antigone afferma la celebre distinzione tra le arbitrarie “leggi scritte” di Creonte e le “leggi non scritte e stabili degli dei”, “che “nessun essere umano può violare”.
CREONTE - [ad Antigone] Ebbene tu che il capo volgi a terra,
neghi o confessi questo aver compito?
ANTIGONE – Sì lo compii; son io; non lo nego.
CREONTE [alla guardia] Or tu libero sei; vattene dunque,
dove vuoi, dalla grave accusa sciolto.
[ad Antigone] E dimmi or tu, ma in breve, senza ambagi,
sapevi tu che a tutta la città
io di vietato avevo seppellirlo?
ANTIGONE – Certo: come ignorare il bando pubblico?
CREONTE – E calpestare osasti queste leggi!
ANTIGONE – Proclamato per me non aveva Giove
questo bando: la somma dea che domina
con gli dei d’oltretomba, la Giustizia,
tali leggi giammai bandì per gli uomini;
né i tuoi bandi credei tanto potessero,
che le leggi non scritte ed incrollabili
degli dei sovvertire uomo mortale
potesse mai: ché non son d’ieri e d’ora
queste leggi, ma vivon sempiterne,
e quando sorser non conosce alcuno.
Queste leggi giammai, per il protervo
arbitrio d’alcun uomo violando,
non volevo affrontar l’ira divina.
M’aspettava la morte? Lo sapevo,
se pur tu non l’avessi proclamato.
Ma se prima del tempo io morirò,
un guadagno è per me: io lo proclamo.
Chi vive la sua vita sciagurata,
così infelice come me, per lui
non sarà forse dolce cosa la morte?
Onde per me affrontare tal destino
Non è dolore, no; ma se sofferto
Avessi mai che il figlio di mia madre
vilipeso giacesse ed insepolto,
questo per me, sì questo, era terribile:
ma delle tue minacce non mi turbo.
E se da folle oprar ti sembro, forse
è folle chi m’incolpa di follia.
(Sofocle, Antigone, vv. 441-470, in Edipo re, Edipo a Colono, Antigone, Garzanti, Milano 2008)
Scrivi un articolo di giornale in cui, prendendo spunto da un’esperienza concreta, ti poni le seguenti domande: ti pare possibile nell’odierno contesto storico affermare che vi siano “leggi che nessun essere umano può violare”, in quanto naturali? Oppure, cerca di evidenziare come le “leggi scritte” si siano, con lo sviluppo della civiltà, affermate fino a divenire l’orizzonte principale dell’agire umano.
Cassetta degli attrezzi
Meccanicismo/finalismo
Di fronte a un fenomeno naturale, le domande possibili possono essere “Qual è la causa?” o “Qual è il fine?”. I due principali modelli interpretativi attraverso i quali si è guardato alla natura sono quello meccanicistico e quello finalistico. Il primo si interroga sulle cause, il secondo sui fini.
Il meccanicismo spiega la realtà in termini di materia e movimento, laddove secondo il finalismo ogni fenomeno naturale, che si verifica nell’universo, tende alla realizzazione di un fine. Col cristianesimo, il concetto della Provvidenza divina diventa il fondamento del finalismo. L’uomo, in particolare, sarebbe il fine del creato.
Confronta la citazione di Laplace e quella di Giovanni Paolo II. Quali sono le motivazioni che le fanno ascrivere rispettivamente a una visione meccanicistica e a una finalistica?
«Noi dobbiamo considerare lo stato presente dell’universo come l’effetto di un dato stato anteriore e come le causa di ciò che sarà in avvenire. Una intelligenza che, in un dato istante, conoscesse tutte le forze che animano la natura e la rispettiva posizione degli esseri che la costituiscono, e che fosse abbastanza vasta per sottoporre tutti i dati alla sua analisi, abbraccerebbe in un’unica formula i movimenti dei più grandi corpi dell’universo come quello dell’atomo più sottile; per una tale intelligenza tutto sarebbe chiaro e certo e così l’avvenire come il passato le sarebbero presenti.»
(P.S. Laplace, Teoria analitica delle probabilità, in Opere, Utet, Torino 1967)
«Tutte le osservazioni concernenti lo sviluppo della vita conducono a un’analoga conclusione. L’evoluzione degli esseri viventi, di cui la scienza cerca di determinare le tappe e discernere il meccanismo, presenta un interno finalismo che suscita l’ammirazione. Questa finalità che orienta gli esseri in una direzione, di cui non sono padroni né responsabili, obbliga a supporre uno Spirito che ne è l’inventore, il creatore.»
(Giovanni Paolo II, Le “prove” dell’esistenza di Dio, 10 luglio 1985)
L’io filosofico
Come concepisco la natura
I tre quadri propongono tre modi diversi di rappresentare la natura. Il primo è del pittore inglese Turner, il secondo dell’impressionista francese Monet e il terzo del pittore astrattista russo Kandinski.





Qual è più vicino alla tua idea di natura? Hai mai provato a dipingere un paesaggio? Che difficoltà hai incontrato? Su quali aspetti ritieni ci si debba più concentrare: forme, colori, proporzioni, chiaroscuri?



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