lunedì 26 dicembre 2016

COMPITI DELLE VACANZE

Carissimi,
ognuno di voi, nella pagina relativa alla disciplina (storia o filosofia) e alla classe, trova le consegne da svolgere per il rientro a scuole. Non sono moltissimi e quindi fateli con impegno. Buon lavoro!

Rinnovo gli auguri di buone feste!
prof.ssa Silvia Suriano

domenica 20 novembre 2016

News: ecco finalmente (e nuovamente) il nostro BLOG!

 Affinchè l'utilizzo del blog sia più fruibile e dinamico, segnalerò sulla Home Page gli aggiornamenti relativi alla diverse pagine. 

Tutte/i voi, di tutto il triennio A, siete pregati di controllare le vostre pagine specifiche!Ognuno troverà qui cosa di nuovo c'è da controllare, scaricare, studiare per poi indirizzarsi alla pagina specifica di classe e materia!

Ricordo che mentre, qui sulla homepage, trovate in cima le comunicazioni più recenti, al contrario sulle pagine di storia e filosofia dovrete scorrere verso il basso per cercare ciò che è stato caricato per ultimo.

Ho abilitato tutti voi a commentare ciò che si trova sul blog quindi sentitevi liberi di porre commenti o chiedere chiarimenti laddove ce ne fosse bisogno ;-)

Buona domenica a tutti!

PS: avevo indicato ad alcuni di voi - appassionati di cinema&football - un filmato dei Monty Python su una straordinaria partita Grecia-Germania...dalle formazioni filosofiche!

Eccolo:


lunedì 19 settembre 2016

Il mestiere di storico


March Bloch, nato a Lione nel 1886, insegnò all’Università di Strasburgo dal 1919 al 1936, poi alla Sorbona. Fondatore de Les Annales e enorme storico. Arruolatosi nel 1939, fu coinvolto nella ritirata di Dunkerque e prese successivamente parte alla Resistenza. Arrestato dai Tedeschi, venne fucilato il 16 giugno 1944. L’Apologia della storia fu scritto durante la prigionia e pubblicato postumo.


Papà, spiegami a che serve la storia”. Così, pochi anni or sono, un ragazzo che mi è molto vicino interrogava suo padre, uno storico. Vorrei poter dire che questo libro rappresenta una risposta, perché non credo ci sia lode migliore per uno scrittore che di saper parlare, con il medesimo tono, ai dotti e agli scolari. Il problema che tale domanda pone è, né più né meno, quello della legittimità della storia.
Eravamo nel giugno 1940, proprio il giorno, se ben ricordo, dell’ingresso dei Tedeschi a Parigi. Nel giardino normanno in cui il nostro Stato Maggiore, privo di truppe, si cullava nell’ozio, noi rimuginavamo le cause del disastro. “Dobbiamo dunque credere che la storia ci ha ingannati?”, mormorò uno di noi. Così l’angoscia dell’uomo maturo coincideva, con un accento più amaro, con l’ingenua curiosità del giovinetto. Bisogna rispondere all’una e all’altra.

Certamente, anche se la storia dovesse esser giudicata incapace di servire ad altro, resterebbe pur sempre a suo favore il fatto che procura uno svago. Personalmente, per quanto riesco a ricordare, la storia mi ha sempre divertito molto. Come tutti gli storici, suppongo. Altrimenti, per quali altre ragioni avrebbero scelto questo mestiere? Tutte le scienze sono interessanti per chi non sia del tutto stupido. Ma ogni dotto ne trova una sola ch’egli si diverta a praticare. Scoprirla, per dedicarvisi, è propriamente quella che si suole chiamare “vocazione”.
Se tuttavia la storia non fosse che un piacevole passatempo, meriterebbe davvero la fatica che spendiamo per scriverla? O dovremo sconsigliare lo studio della storia agli ingegni suscettibili di miglior impiego, oppure la storia dovrà dimostrare di avere le carte in regola come conoscenza.

Talvolta si è detto: “La storia è la scienza del passato”. A mio parere, non è esatto. Anzitutto, è assurda l’idea stessa che il passato, come tale, possa essere oggetto di scienza. In che modo, senza una preliminare decantazione, potremmo fare oggetto di conoscenza razionale fenomeni non aventi altro carattere comune fuorché quello di non esser stati nostri contemporanei?
E’ vero, il linguaggio tradizionale conserva volentieri la denominazione di “storia” a qualsiasi studio di mutamento nel tempo. In questo senso, esiste una storia del sistema solare, una storia delle eruzioni vulcaniche. Ma come individuare quale di esse sia di competenza degli storici, piuttosto che degli astronomi o dei geologi? Qual fatto nuovo è accaduto, ogni volta, che abbia richiesto imperiosamente l’intervento della storia? È l’elemento umano che ha fatto la sua comparsa. L’oggetto della storia è per sua natura l’uomo. O meglio: gli uomini. La storia vuol cogliere gli uomini aldilà delle forme sensibili del paesaggio, degli arnesi, delle macchine, delle istituzioni. Chi non vi riesce non sarà che, nel migliore dei casi, un manovale dell’erudizione. Il buono storico somiglia all’orco della fiaba: là dove fiuta carne umana, là sa che è la sua preda.
Scienza degli uomini”, abbiamo detto. E’ ancora troppo vago. Bisogna aggiungere: “degli uomini nel tempo”. Lo storico non pensa solo “all’umano”. L’aria in cui il suo pensiero naturalmente respira è la durata. Ora, questo tempo è per sua natura continuità. Ma anche perpetuo mutamento. Dall’antitesi tra questi due attributi derivano i grande problemi della ricerca storica.

Si dice: “Tra tutte le cose umane, le origini anzitutto sono degne di studio”. Ma questa delle origini per gli storici può diventare una vera e propria ossessione. “Origini” significa semplicemente “inizi”? O per “origini” si dovrà invece intendere “cause”? Di frequente, tra i due significati avviene una contaminazione, tanto più temibile in quanto, in generale, poco avvertita. Nel vocabolario comune, le “origini” sono un inizio che spiega. Peggio ancora: che è sufficiente a spiegare. Qui sta l’ambiguità e il pericolo. Troppo spesso il passato fu usato, con tanto zelo, per spiegare il presente al solo scopo di giustificarlo o condannarlo. Così che forse, in parecchi casi, il demone delle origini fu solamente un’incarnazione di quest’altro diabolico nemico della storia genuina: la mania del giudizio. In conclusione: un fenomeno storico non è mai compiutamente spiegato se si prescinde dallo studio del momento in cui avviene.

L’incomprensione del presente nasce fatalmente dall’ignoranza del passato. Forse però non è meno vano affaticarsi a comprendere il passato, ove nulla si sappia del presente. Penso alle battaglie del passato. Le conoscevo davvero prima di averne provato io l’atroce nausea, che cosa sono l’accerchiamento per un esercito e la disfatta per un popolo? In verità, consciamente o no, noi deriviamo sempre dalle nostre esperienze quotidiane, gli elementi che ci servono a ricostruire il passato. L’erudito che non ami osservare intorno a sé né gli uomini, né le cose, né gli eventi, meriterà forse il nome di utile antiquario. Ma farà bene a rinunciare a quello di storico.

Si dice: “Lo storico non si propone altro che di descrivere le cose così come sono avvenute”. E già Erodoto aveva detto: “Raccontare ciò che fu” (ton eonta). In altre parole, lo storico è invitato a eclissarsi di fronte ai fatti. Ci sono due modi di essere imparziali: quello dello studioso e quello del giudice. Essi hanno una radice comune: l’onesta sottomissione alla verità. Quando uno studioso ha osservato e spiegato, ha concluso il suo compito. Al giudice tocca ancora di dare la sua sentenza. Lo storico non deve giudicare dunque. Ma comprendere.

La storia si sofferma su aspetti diversi del fatto storico, senza però dimenticare l’unità che sottostà a eventi e uomini. Homo religiosus, homo oeconomicus, homo politicus: sarebbe pericoloso prenderli per qualcosa di diverso da quello che essi sono in realtà: fantasmi comodi, a patto di non diventare ingombranti. Il solo essere di carne e ossa è l’uomo, l’uomo senza aggettivi, che ricongiunge in sé tutto quanto. Quanti protagonisti del Terrore sono stati anche ottimi padri di famiglia. Quanti uomini conducono, su tre o quattro piani differenti, parecchie vite, che essi desiderano distinte e riescono a volte a mantenere tali! Di qui a negare l’unità fondamentale dell’Io, ci corre. Erano, forse, estranei uno all’altro il Pascal matematico e il Pascal cristiano?

Passiamo dagli individui alla società. Siccome questa, in qualsiasi modo la si consideri, non può che essere in definitiva, non dico una somma (sarebbe troppo poco) ma per lo meno un prodotto delle coscienze individuali, non ci stupirà di ritrovarvi lo stesso gioco di incessanti interazioni.
Non basta la storia politica. Occorre tenere conto dei diversi elementi della storia (religione, diritto geografia, letteratura, arte, …) per cogliere il movimento vitale che collega tutti i tasselli di un quadro storico. Ma il lavoro di ricomposizione non può che avvenire dopo l’analisi. Diciamo meglio: è soltanto il prolungamento dell’analisi, nonché la sua ragion d’essere.

Nello studio della storia un ruolo determinante è giocato dalle cause. Non sarebbe privo di rischi elevare a dignità di assoluto una classificazione gerarchica che non è, in verità, altro che comodità della mente. La realtà ci presenta una quantità quasi infinita di linee di forza, tutte convergenti verso un medesimo fenomeno. La scelta da noi fatta tra esse può fondarsi sì su caratteri, in pratica, degnissimi di attenzione; ma non è che una scelta. C’è segnatamente molto di arbitrario nell’idea di una causa per eccellenza opposta alle semplici “condizioni”.
La superstizione della “causa unica”, in storiografia, è molto spesso la forma insidiosa della ricerca di un responsabile, quindi di un giudizio di valore. “A chi la colpa, o il merito?” lo dice il giudice. L studioso si limita a domandare: “Perché?” e accetta che la risposta non sia semplice.

E poi, nella natura, non è proprio l’uomo la variabile per eccellenza?

Che cosa fanno oggi i filosofi?

Umberto Eco e Norberto Bobbio rispondono alla domanda «che cosa fanno oggi i filosofi?». In questi brevi passi viene ribadita la nozione di filosofia come "domanda" e "ricerca di senso". 

U. Eco. Cos'è la filosofia? Scusate il mio conservatorismo banale, ma non trovo ancora di meglio che la definizione che ne dà Aristotele nella Metafisica: è la risposta a un atto di meraviglia. Vogliamo tradurlo in termini molto, molto contemporanei, dopo la "logica delle rivoluzioni scientifiche" di Thomas Kuhn? È la sensazione che nel paradigma qualcosa non funzioni. Un paradigma è un insieme, una costruzione di regole e di principi alla quale ogni scienza del tempo si attiene. Ogni tanto appare una frattura: il paradigma si disfa, ne nasce un altro. Il momento della filosofia è quell'atto che avviene quando si ha l'impressione che il paradigma così com'è si muova a vuoto e al suo interno si facciano ormai solo giochi enigmistici. René Thom potrebbe dire che ogni gesto filosofico è una catastrofe (nel senso non banale del termine). 
Quindi la filosofia è necessariamente atecnica e non scientifica. Usa per lo più come categorie delle grandi metafore, scavalca i confini delle scienze perché, provando malessere per i paradigmi troppo stretti, cerca di mettere in contatto universi diversi. Quindi è sempre una forma di alto dilettantismo, in cui qualcuno, per tanto che abbia letto, parla sempre di cose su cui non si è preparato abbastanza. Ciò non esclude che facendo queste operazioni di alto dilettantismo ogni filosofia poi non produca un sistema coerente di nozioni, di categorie; a quel punto lentamente diventa scienza. L'ottanta per cento di quella che Aristotele ci passava per filosofia, è poi diventata scienza e di filosofico è rimasto pochissimo. 
Quindi, quando nasce, la filosofia è inutile perché va contro una utilità riconosciuta, che si definisce come scienza particolare; quando comincia a diventare utile, effettivamente è diventata utile perché probabilmente ha prodotto una scienza, ma a quel punto non è più filosofia, almeno nel senso in cui la sto definendo. Può continuare a essere attività accademica, didattica, insegnamento di quella che era stata la filosofia di partenza. La filosofia ha vita brevissima. [...] 

N. Bobbio. Davanti a ogni più piccolo problema ci poniamo sempre due perché: un perché causale e un perché finale. Ovvero: 1) quali sono le cause per cui accade quello che accade? 2) perché è accaduto proprio quello che è accaduto? e non altro? O meglio: in quale disegno generale dell'universo si inserisce l'accadimento di cui conosciamo perfettamente le cause che l'hanno prodotto? In altre parole, nell'un caso si tratta di spiegare un fatto, nel secondo di giustificarlo. Il sapere scientifico quando riesce, dà una risposta al primo perché. Non al secondo. 
Facciamo un esempio qualunque tratto dall'esperienza quotidiana. Leggiamo sul giornale che in uno scontro fra due macchine alcuni sono morti e altri sono rimasti vivi. Perché alcuni siano morti e altri siano rimasti vivi è dal punto di vista causale perfettamente conoscibile: dipende dal modo con cui è avvenuto l'urto, dalla posizione dei viaggiatori e da tanti altri elementi che un esperto è in grado di ricostruire. Ma siamo in grado di dare una risposta a que¬st'altra domanda: perché (e in questo caso "perché" significa non per quale causa ma per quale ragione finale) sono morti questi e non quelli? Esiste un disegno generale dell'universo che possa non solo spiegare causalmente, ma giustificare finalisticamente quello che è accaduto? E se esiste, quei disegno dell'universo, qual è? 
Ecco cosa significa la domanda di senso. Altro è chiedersi per quale causa, empiricamente conoscibile, è avvenuto quell'incidente: altro chiedersi qual è il senso di questo incidente. Siamo in grado di dare una risposta a questa domanda? 
Proviamo un po'. Se rispondiamo che l'universo è regolato dalla necessità o dal caso, la domanda di senso scusatemi il bisticcio non ha più alcun senso. Quello che accade doveva accadere: necessità. Quello che accade poteva anche non accadere: il caso. Solo se riteniamo che l'universo sia governato da una Provvidenza, alla cui decisione nulla di quanto accade è sottratto, siamo indotti a ritenere che quelle morti e quelle vite abbiano un senso perché lo ricevono da questa volontà previdente e provvidente. Ma cos'è questo senso? Se rispondiamo che quella volontà è, come dobbiamo rispondere, imperscrutabile, allora sappiamo soltanto che l'accadimento deve avere un senso, ma non sappiamo qual è. A questo punto ci viene un sospetto. Forse non è vero che quell'avvenimento ha senso perché esiste una Provvidenza, ma è vero l'opposto. 
Questo è un piccolo esempio, ma la domanda di senso si allarga, si estende a tutta la nostra vita individuale, a tutta la storia dell'uomo, a tutto l'universo. Rispetto all'individuo, perché il dolore e non anche il piacere e non soltanto il piacere? Perché la sofferenza e non soltanto la gioia. Perché l'infelicità e non soltanto la felicità? Rispetto alla storia: perché l'oppressione e non soltanto la libertà? Perché la guerra, la violenza, le stragi e non soltanto la pace, il benessere e la fraternità? Rispetto all'universo intero, infine, la domanda fondamentale che comprende tutte le altre: perché l'essere e non il nulla? Non so se riesco a far capire la pregnanza di questa domanda che è davvero la domanda ultima. Perché ci sono cose, uomini, animali, piante, stelle, galassie, in una parola il mondo e non invece il non mondo? [...] I due mali contro cui la ragione filosofica ha sempre combattuto e deve combattere ora più che mai , sono, da un lato, il non credere a nulla; dall'altro, la fede cieca. Insomma tener viva la fede nella ragione contro coloro che non credono neppure nella ragione, che io chiamo i meno che credenti, e contro coloro che credono senza ragionare, cioè i più che credenti. Questo è il compito umile, molto umile ma necessario, della filosofia: un compito da sentinella, più che presuntuosamente da «guida». La sentinella che deve stare ad ascoltare l'avvicinarsi del nemico, da qualunque parte provenga, e dare l'allarme prima che sia troppo tardi.