lunedì 19 settembre 2016

Che cosa fanno oggi i filosofi?

Umberto Eco e Norberto Bobbio rispondono alla domanda «che cosa fanno oggi i filosofi?». In questi brevi passi viene ribadita la nozione di filosofia come "domanda" e "ricerca di senso". 

U. Eco. Cos'è la filosofia? Scusate il mio conservatorismo banale, ma non trovo ancora di meglio che la definizione che ne dà Aristotele nella Metafisica: è la risposta a un atto di meraviglia. Vogliamo tradurlo in termini molto, molto contemporanei, dopo la "logica delle rivoluzioni scientifiche" di Thomas Kuhn? È la sensazione che nel paradigma qualcosa non funzioni. Un paradigma è un insieme, una costruzione di regole e di principi alla quale ogni scienza del tempo si attiene. Ogni tanto appare una frattura: il paradigma si disfa, ne nasce un altro. Il momento della filosofia è quell'atto che avviene quando si ha l'impressione che il paradigma così com'è si muova a vuoto e al suo interno si facciano ormai solo giochi enigmistici. René Thom potrebbe dire che ogni gesto filosofico è una catastrofe (nel senso non banale del termine). 
Quindi la filosofia è necessariamente atecnica e non scientifica. Usa per lo più come categorie delle grandi metafore, scavalca i confini delle scienze perché, provando malessere per i paradigmi troppo stretti, cerca di mettere in contatto universi diversi. Quindi è sempre una forma di alto dilettantismo, in cui qualcuno, per tanto che abbia letto, parla sempre di cose su cui non si è preparato abbastanza. Ciò non esclude che facendo queste operazioni di alto dilettantismo ogni filosofia poi non produca un sistema coerente di nozioni, di categorie; a quel punto lentamente diventa scienza. L'ottanta per cento di quella che Aristotele ci passava per filosofia, è poi diventata scienza e di filosofico è rimasto pochissimo. 
Quindi, quando nasce, la filosofia è inutile perché va contro una utilità riconosciuta, che si definisce come scienza particolare; quando comincia a diventare utile, effettivamente è diventata utile perché probabilmente ha prodotto una scienza, ma a quel punto non è più filosofia, almeno nel senso in cui la sto definendo. Può continuare a essere attività accademica, didattica, insegnamento di quella che era stata la filosofia di partenza. La filosofia ha vita brevissima. [...] 

N. Bobbio. Davanti a ogni più piccolo problema ci poniamo sempre due perché: un perché causale e un perché finale. Ovvero: 1) quali sono le cause per cui accade quello che accade? 2) perché è accaduto proprio quello che è accaduto? e non altro? O meglio: in quale disegno generale dell'universo si inserisce l'accadimento di cui conosciamo perfettamente le cause che l'hanno prodotto? In altre parole, nell'un caso si tratta di spiegare un fatto, nel secondo di giustificarlo. Il sapere scientifico quando riesce, dà una risposta al primo perché. Non al secondo. 
Facciamo un esempio qualunque tratto dall'esperienza quotidiana. Leggiamo sul giornale che in uno scontro fra due macchine alcuni sono morti e altri sono rimasti vivi. Perché alcuni siano morti e altri siano rimasti vivi è dal punto di vista causale perfettamente conoscibile: dipende dal modo con cui è avvenuto l'urto, dalla posizione dei viaggiatori e da tanti altri elementi che un esperto è in grado di ricostruire. Ma siamo in grado di dare una risposta a que¬st'altra domanda: perché (e in questo caso "perché" significa non per quale causa ma per quale ragione finale) sono morti questi e non quelli? Esiste un disegno generale dell'universo che possa non solo spiegare causalmente, ma giustificare finalisticamente quello che è accaduto? E se esiste, quei disegno dell'universo, qual è? 
Ecco cosa significa la domanda di senso. Altro è chiedersi per quale causa, empiricamente conoscibile, è avvenuto quell'incidente: altro chiedersi qual è il senso di questo incidente. Siamo in grado di dare una risposta a questa domanda? 
Proviamo un po'. Se rispondiamo che l'universo è regolato dalla necessità o dal caso, la domanda di senso scusatemi il bisticcio non ha più alcun senso. Quello che accade doveva accadere: necessità. Quello che accade poteva anche non accadere: il caso. Solo se riteniamo che l'universo sia governato da una Provvidenza, alla cui decisione nulla di quanto accade è sottratto, siamo indotti a ritenere che quelle morti e quelle vite abbiano un senso perché lo ricevono da questa volontà previdente e provvidente. Ma cos'è questo senso? Se rispondiamo che quella volontà è, come dobbiamo rispondere, imperscrutabile, allora sappiamo soltanto che l'accadimento deve avere un senso, ma non sappiamo qual è. A questo punto ci viene un sospetto. Forse non è vero che quell'avvenimento ha senso perché esiste una Provvidenza, ma è vero l'opposto. 
Questo è un piccolo esempio, ma la domanda di senso si allarga, si estende a tutta la nostra vita individuale, a tutta la storia dell'uomo, a tutto l'universo. Rispetto all'individuo, perché il dolore e non anche il piacere e non soltanto il piacere? Perché la sofferenza e non soltanto la gioia. Perché l'infelicità e non soltanto la felicità? Rispetto alla storia: perché l'oppressione e non soltanto la libertà? Perché la guerra, la violenza, le stragi e non soltanto la pace, il benessere e la fraternità? Rispetto all'universo intero, infine, la domanda fondamentale che comprende tutte le altre: perché l'essere e non il nulla? Non so se riesco a far capire la pregnanza di questa domanda che è davvero la domanda ultima. Perché ci sono cose, uomini, animali, piante, stelle, galassie, in una parola il mondo e non invece il non mondo? [...] I due mali contro cui la ragione filosofica ha sempre combattuto e deve combattere ora più che mai , sono, da un lato, il non credere a nulla; dall'altro, la fede cieca. Insomma tener viva la fede nella ragione contro coloro che non credono neppure nella ragione, che io chiamo i meno che credenti, e contro coloro che credono senza ragionare, cioè i più che credenti. Questo è il compito umile, molto umile ma necessario, della filosofia: un compito da sentinella, più che presuntuosamente da «guida». La sentinella che deve stare ad ascoltare l'avvicinarsi del nemico, da qualunque parte provenga, e dare l'allarme prima che sia troppo tardi.

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